Il signor nessuno alla ricerca del suo nome
La vecchina della casa azzurra
Il signor nessuno bussò al cancello di quella casa colonica tutta dipinta di azzurro. Era alla ricerca del suo guastatore per togliergli le pile e finalmente farsi restituire il suo nome e la sua identità.
Era stanco dopo la lunga camminata con la ballerina, con l’uomo con la giacca da cacciatore e con il medico che curava più l’anima e meno la mente. Aveva bisogno di bere.
Era stanco dopo la lunga camminata con la ballerina, con l’uomo con la giacca da cacciatore e con il medico che curava più l’anima e meno la mente. Aveva bisogno di bere.
Buongiorno, disse alla vecchina che venne ad aprire la porta. Buongiorno a lei, rispose la vecchina che venne ad aprire la porta. Posso sedermi un attimo e bere un bicchiere d’acqua?
La vecchina gli indicò una poltrona di vimini con un cuscino azzurro e verde. Lei si sedette a fianco. Per un po’ si guardarono senza parlare, si scrutarono i volti, i sorrisi di circospezione, poco sinceri e tanto di circostanza, le mani frenetiche, con le dita che si muovevano nervosamente intorno ai manici della borsa nella quale il signor nessuno aveva infilato, prima di partire, alcune cose che potevano servire durante il viaggio per cercare il guastatore.
Poi la vecchina che gli aveva aperto la porta ruppe gli indugi: “Ma lei sa chi sono io?” chiese alzando un tantino tantino il mento e offrendo allo sguardo del signor nessuno due occhi del colore della brace. Veramente no, disse intimidito il signor nessuno: “Ma se vuole vado via subito senza aspettare il bicchiere d’acqua che mi aveva promesso” disse.
Resti pure, rispose la vecchina che aveva aperto la porta, ma dovrà ascoltare la mia storia.
Il signor nessuno si accomodò meglio sul cuscino azzurro e verde e disse: ascolto.
Ero la ragazza più bella della città. A venti anni avevo lunghi capelli d’oro e gli occhi non erano di brace, ma azzurri come questa casa. Ero una musicista, suonavo il violino. E lo suonavo da incanto. La gente si fermava per ascoltarmi. Anche le automobili si fermavano per non far rumore. E quando le note ballavano nel cielo tutti diventavano più buoni. Mi rendeva felice, ma soprattutto orgogliosa essere tanto amata dai miei concittadini. Ero una persona importante.
Un giorno in città arrivò un’altra musicista. Suonava l’oboe. Ed era così brava, così aggraziata, così speciale che la gente quando la sentiva suonare si addormentava e sognava.
Un giorno un’amica venne a trovarmi. Si sedette proprio lì dove è seduto lei signor nessuno, e tenendomi le mani mi disse: devi fare qualcosa oppure lei prenderà il tuo posto nel cuore della gente.
Furono stilettate quelle parole perché insinuarono in me il tarlo dell’odio. E più suonava più la odiavo. Più la guardavo e più la odiavo.
Che stupida, disse la vecchina mettendosi le mani sugli occhi anche se nessuna mano poteva cancellare le immagini dei ricordi.
Che stupida, disse la vecchina mettendosi le mani sugli occhi anche se nessuna mano poteva cancellare le immagini dei ricordi.
Un giorno non ce la feci più. Era tanto l’odio che traboccava dal cuore e dagli occhi che pian piano stavano perdendo l’azzurro e stavano diventando di brace. Così decisi di liberarmi di lei. Gettai il violino. Aprì una vecchia cassa che avevo in soffitta e liberai l’olifante, un corno da caccia ricavato da una zanna di elefante. Una mostruosità che mio padre aveva rinchiuso in quel baule tenuto in soffitta. Una mostruosità che io avevo liberato come liberavo il mio odio. L’olifante emise i primi suoni. Terribili. Tutti si voltarono a vedere chi c’era a suonarlo. Qualcuno mi fece un cenno a non andare avanti. Ma io non vedevo nulla.
Avrei potuto chiederle di suonare insieme. Avremmo unito i sogni e l’amore. Invece io continuai a suonare. Andai avanti per un giorno e una notte fino a quando la musicista non diventò sorda. Allora gettò l’oboe e scappò.
Io soddisfatta ma non felice, posai l’oliante e ripresi il violino. Ma già sapevo che nulla sarebbe stato più come prima. E infatti dalle corde non uscirono che stridii. Una musica orrenda, fatta di sofferenza e di bugie. Gettai il violino e da allora non l'ho più ripreso.
Il signor nessuno posò una mano sul braccio della vecchina che gli aveva aperto la porta, sperando di darle un po’ di sollievo. Era diventato triste.
Tutti quelli che mi vengono vicini diventano tristi disse la vecchina che gli aveva aperto la porta.
Il signor nessuno bevve piano il suo bicchiere d’acqua. Guardò la vecchina e le chiese dove fosse l’amica.
È sparita e fa la guastatrice, rispose sottovoce.
Una fiamma illuminò il cielo. È lei, disse subito il signor nessuno. Ecco chi doveva trovare. Così come la signora Sfortuna anche il guastatore era una guastatrice. Ed era lei che aveva il suo nome.
Il signor nessuno lasciò la vecchina nel patio di quella casa colonica tutta azzurra e riprese la strada.
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