Il signor nessuno alla ricerca del suo nome


L'occhiovra



Il signor nessuno cominciò a correre cercando di raggiungere la suonatrice di oboe. Ma appena tentava di afferrarne il mantello ampio, tra le mani non gli restava che qualche brandello di seta e un po’ di polvere d’oro. E corse, corse, in quando stanco e avvilito non si sedette su una panchina sgangherata a bordo di un marciapiede. Ai suoi piedi un rivolo d’acqua aveva formato uno stretto fiumiciattolo dove decine e decine di barchette di carta caracollavano avviandosi trionfanti verso una pozzanghera dove si fermavano aspettando il destino. In pochi minuti le barchette però avevano riempito tutto lo spazio e quelle che arrivavano in successione avevano formato una fila che in poco tempo era arrivata ai piedi del signor nessuno. Così che per alzarsi dalla panchina aveva dovuto scivolare fino al bordo estremo, posare prima un piede e poi l’altro sul marciapiede. E facendo leva con una mano sul bracciolo, tirarsi su, in piedi. 

Ma voltandosi a guardare la lunga fila di barchette di carta al signor nessuno venne in mente quando si era imbarcato per la prima volta. Era stato tanti anni prima, almeno dieci. Allora aveva ancora un nome, ed era felice. O almeno così ricordava.
Era salito sulla passerella della “Bucanieri” con passo veloce e sicuro e si era presentato direttamente al capitano. Portandosi la mano tesa al berretto aveva detto sicuro: pronto a solcare i mari. Ma alla fine la voglia di avventura si era esaurita e si era ritrovato a far da balia ad un’occhiovra.
Il terribile mostro era stato catturato dal capitano della “Bucanieri” quasi ai confini del mondo. Incatenato e messo nelle galere profonde della nave, al signor nessuno era stato affidato il compito di sorvegliarlo. Ma dopo mesi, onda dopo onda, fra l’occhiovra e il signor nessuno si era creato un legame. Non un sentimento di amicizia, ma una muta sopportazione. Così man mano che passavano i giorni e la terra era sempre più lontana, l’occhiovra aveva cominciato a dire qualche parola. Poi si era confidata: cosa accradà? dove mi porteranno? cosa ne sarà di me?
Il signor nessuno non aveva risposte. Non ne aveva per sé figuriamoci per l’occhiovra. Ma cercava di infonderle coraggio. 
Un giorno, mentre divideva un pezzetto di formaggio, le chiese perché era tanto temuta se in fin dei conti sembrava così mite. Ah ma io lo sono, rispose. Solo che gli uomini hanno paura di me perché scruto le anime. E chi vuole essere visto fin nel profondo?
Io, rispose il signor nessuno. Io non ho paura disse alzandosi in piedi e battendosi una mano sul petto.
Davvero? disse l’occhiovra girando leggermente la testa dove era seduto quell’uomo che sfidava i suoi mille occhi. 
Bene, disse, allora se sei così sicuro di te preparati a guardarti l’anima. 
Il signor nessuno mise bene le piante dei piedi a terra, abbassò un po’ le spalle, tirò un respiro profondo e si preparò a scrutare l’abisso.
Ma nonostante tutto davanti ai suoi occhi non comparve nulla di così doloroso. Quasi ne restò deluso. Ma l’occhiovra lo mise nuovamente in guardia: aspettati qualcosa quando meno te lo immagini. 


Il signor nessuno finì il suo turno e salì in branda. Voleva dormire. Non pensava all'occhiovra che aveva lasciato nelle galere profonde. Era solo stanco.
Il sonno lo colse d’improvviso. I sogni gli si affollarono nella mente. Si vide correre in un prato. Poi notò un'altra persona. Era lei. Finalmente potè guardare negli occhi la suonatrice d’oboe e vide che aveva un viso bellissimo. Aveva tante cose da chiederle ma dalla sua bocca non usciva un solo suono, non un lamento. Tentò allora, a gesti, di domandarle perché si era presa il suo nome. Ma lei non lo capiva. Il signor nessuno era disperato. Faceva cenni alla rinfusa. Aveva il cuore che gli batteva forte eppure non riusciva a fare quella semplice domanda: perché? E soprattutto dove era finito il suo nome e come poteva fare per riaverlo. Lei era lì e lui non era in grado di dire una sola parola. 
La fronte gli si imperlò di sudore, goccioline piccole e salate che scendevano a rivoli sulle tempie, fra i capelli e sulla nuca, si fermavano sulla fronte e poi rotolavano fin sulle sopracciglia facendogli il solletico. Si passò la mano fra i capelli e poi sul viso. E non sentendo nulla fra le dita capì. Davanti a lui non c’era la suonatrice d’oboe. In verità stava ancora dormendo. Ma il tormento era reale. Era stato un uomo che cercava ad ogni costo una ragione per quello che stava accadendo e ora era condannato a non poter chiedere alcuna spiegazione. Doveva accettare quello che stava accadendo. Doveva accettare il passare del tempo. Doveva accettare che esisteva una corrente e un filo logico che legava ogni passo della vita. 
Si svegliò ancora con il senso di angoscia che gli stringeva il cuore. Si alzò.  Tornò dall’occhiovra e guardandola fisse le disse: io ho perso il mio nome non me lo hanno rubato. La suonatrice d’oboe lo ha solo raccolto. Tu questo lo sapevi già.

L’occhiovra si girò e sorrise sorniona: non è a me che devi chiedere queste cose. Io posso svelartele, non altro. Mio caro dovrai ancora perdonarti. Poi si girò chiudendo i suoi duemila occhi.

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